I RACCONTI DEL CALENDARIO - maggio
Questo non è
proprio un racconto. È una
storia vera. La mia.
Quando ho preso
casa per andarci a vivere da sola, avevo un piano in mente: trasformare le
terrazze in meravigliosi giardini. Il mio nido nel sottotetto dell’ultimo piano
di un condominio di città, doveva diventare un giardino. Sono scesa a patti con
le regole condominiali, prima di agire, mi sono informata. E poi ho deciso di…
fare.
La prima piantina a entrare in casa fu un geranio rosso fuoco, che ovviamente venne battezzata ROXY. Subito dopo arrivò un bellissimo alloro (ANTONIO, perché me lo regalarono due amici di nome Antonio). Quindi entrò un geranio rosa (ROSITA) e poi una bella siepe di plumbago, rimasta senza nome perché la bellezza dei suoi fiori azzurri parlava più di mille nomi.
Inizialmente è andato tutto a meraviglia. Le terrazze erano grandi, piene di sole. Piante ne potevo mettere a non finire. Unica regola, non causare umidità al piano di sotto. Ecco perché ho comprato dei binari di legno, li ho stesi sul pavimento delle terrazze e ho posto i vasi là sopra, in modo da non creare quella chiazza di umido sulle mattonelle e nell’appartamento di sotto.
Pian piano però
qualcosa ha smesso di funzionare bene… .
Prima le
lamentele per le foglie nella grondaia (che io comunque avevo cura di eliminare
sempre), poi le lamentele per i fiori che facevano troppo profumo, infine per
le api che “possono pungere i nostri bambini”!!! Insomma… il condominio
sembrava veramente allergico al verde, in una città in cui già il sindaco era
allergico al verde. Insieme alla loro ritrosia verso le mie piante, ho sentito
crescere la ritrosia verso di me. A parte due condomini, nessuno mai mi ha
salutato per le scale, nessuno mai mi ha chiesto come stai, dove vai. Nulla. Io
ho provato ad aprirmi al condominio: lasciavo bigliettini di auguri per Natale,
decoravo il piano terra per Pasqua, lasciavo regalini carini ai bimbi appena
nati … ma niente. C’era sempre quel gelo, quella distanza, quella ritrosia.
Ho resistito dieci anni. Poi, dopo la morte di mio padre, quella solitudine immensa che sentivo dentro non potevo tollerarla insieme alla solitudine che avevo di fuori. E così ho deciso – complice anche un’accusa ingiusta e ingiustificata, l’ennesima, per un comportamento che non era responsabilità mia! – di vendere tutto. Via.
Al momento sono
“parcheggiata” da mia madre. Ci facciamo compagnia … lei per non sentire il
peso dell’assenza del suo amato marito, io per non sentire il gelo addosso. Un
domani andrò via verso una casa che sia di nuovo mia, che sia meno gelida di
quella, e dove le mie piante siano benvenute. Perché le piante sopravvissute a
questi dieci anni di cattiveria, di pesantezza e di clima (meteo) rovente …
l’alloro Antonio è morto e così anche il plumbago e altre otto piantine… sono veramente poche. E quei vasi superstiti
li ho portati via con me.
Da mia madre i miei gerani sono contenti, sono rinati, fanno fiori a mazzi e sono pieni di foglie. Anche le tre piante grasse che ho salvato hanno ritrovato una vita nuova. Vivono sui balconi, in spazi più ristretti, ma senza nessuno a puntare il dito contro, senza nessuno a far sentire tanto forte il suo rifiuto. Un giorno li porterò con me ancora, ovunque andrò. Molto probabilmente sarà solo un monovano, una stanza con cucinino, un rustico di campagna o un cabinotto fronte mare. Non lo so ancora, non chiedo molto spazio e non desidero molte cose. Sarà un altro “ovunque”.
E ovunque andrò, una cosa deve essere certa: deve essere un luogo in cui i gerani al mio davanzale siano felici!
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